“È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo.” Questo il concetto basilare espresso dal “manifesto della Razza”, pubblicato il 14 luglio 1938 e firmato da dieci scienziati fascisti, che si avventurano poi nel definire una “Pura Razza Italiana” di origine ariana, da difendere da contaminazioni con altre razze, specialmente da quella ebraica. A questo Manifesto, direttamente ispirato da Mussolini e dalla corrente filonazista di Farinacci, seguirono nell’ottobre-novembre 1938 le leggi razziali che escludevano gli ebrei italiani dalla vita pubblica con tutta una serie di norme persecutorie.
Ma da dove veniva questa scelta incomprensibile per la maggioranza degli italiani?
Gli ebrei in Italia sono sempre stati pochi e generalmente tollerati. Negli stati preunitari della penisola, non vi furono persecuzioni del genere di quelle della Spagna, del Portogallo, della Germania, della Francia o dell’Inghilterra. Vi furono sì tentativi di conversione forzata, sequestro dei beni e limitazioni delle attività lavorative e del culto, espulsioni e qualche condanna a morte, ma mai generalizzate. Anche se, per dovere di cronaca, va’ segnalato che il primo ghetto, in Europa, fu istituito dalla Serenissima a Venezia nel 1517 e che gli ebrei furono espulsi totalmente da Vicenza nel 1486 con un provvedimento del doge Marco Barbarigo, su iniziativa delle autorità religiose e civili della città, preoccupate della loro influenza in campo economico e finanziario.

Ghetto di Venezia
Con Napoleone prima e poi con lo Stato Unitario le discriminazioni nei confronti degli ebrei cessarono ed essi diventarono cittadini a tutti gli effetti, partecipando con successo alla vita pubblica. Pur rappresentando solo lo 0,1% della popolazione italiana sono ben rappresentati nelle professioni liberali, nel governo, nell’amministrazione pubblica e nell’esercito. Il generale Pugliesi, il più decorato della 1° guerra mondiale, era di origini ebraiche. Molti di loro aderirono al fascismo, come Margherita Sarfatti, biografa, ispiratrice (e amante) del Duce, o parteciparono al governo di Mussolini come A. Finzi e G. Jung. Le persecuzioni e le leggi razziali furono il frutto della salita al potere in Germania di Hitler e l’alleanza tra i due regimi autoritari. Ma non si trattò solo di una imitazione dell’ideologia nazista in salsa italica.
Mussolini sfruttò la questione ebraica, che mai nessuno aveva prima posto, come un catalizzatore per l’unità della nazione contro un nemico interno. Gli ebrei erano perfetti come obbiettivo, erano pochi, scarsamente organizzati ed indifesi. Inoltre si poteva usare contro di loro il retaggio di un antisemitismo strisciante sempre presente in aree minoritarie del cattolicesimo conservatore. Di fatto le reazioni contro le leggi razziali furono molto deboli (solo il pontefice Pio XI condannò la scelta del fascismo) anche se, con il classico metodo italiano, si cercò di non applicarle in toto.
Tuttavia, per sfuggire alle discriminazioni, molti esponenti del mondo universitario ed economico emigrarono, tra loro anche E. Fermi (la cui moglie era ebrea) E. Segre e B. Pontecorvo. Tutti quelli rimasti, circa 41.000 secondo il censimento del 1938, furono comunque schedati e controllati. Questo fu fatale dopo l’occupazione nazista dell’Italia dell’8 settembre del 1943, perché le SS andarono a colpo sicuro nei rastrellamenti e deportazioni degli ebrei verso i campi di sterminio, in questo spesso aiutati dalla polizia italiana e dall’organizzazione statale della RSI.

Tombe di famiglie ebree al cimitero acattolico di Vicenza
Per quanto riguarda la provincia di Vicenza il censimento del 1931 dava in totale la presenza di 26 ebrei, saliti a 57 nel 1938. A questo punto inizia un fenomeno poco conosciuto e studiato, l’immigrazione di un gran numero (circa 10.000) di ebrei tedeschi, austriaci, cecoslovacchi e polacchi che arrivano in Italia quando le frontiere cominciano a chiudersi per la guerra. Nell’impossibilità di emigrare negli Usa o in Inghilterra scelgono l’Italia nella convinzione che fosse un Paese tollerante, dove essere al sicuro dalle persecuzioni naziste. Ad essi dopo il 1941 si aggiungono ebrei provenienti dai paesi occupati dall’Italia: Albania, Grecia ed Jugoslavia, deportati anche per salvarli dai massacri dei tedeschi e dei loro alleati croati, gli ustascia. Tutti vengono relegati in una sorta di confino interno in campi provvisori o presso i comuni scelti per non aver sedi di industrie o comandi militari. In provincia di Vicenza ne arrivano circa 600, ripartiti in 29 Comuni. Non ne risultano presenti a Monticello C. Otto, ma certamente erano presenti a Sandrigo, Breganze e Camisano. Una della sede previste dalla prefettura per il confino di queste persone era Villa Da Porto a Vivaro (previsti 200 confinati!), per fortuna ipotesi poi scartata. I confinati vivevano precariamente con poche lire al mese passate dai comuni, era loro vietato lavorare per mantenersi e ogni giorno erano controllati dai carabinieri. Dopo l’8 settembre la situazione degli ebrei diventa disperata, con i confini chiusi e la guerra in corso erano in trappola. La neonata RSI nel congresso di Verona dichiarò gli ebrei “Stranieri e parte di nazione nemica”.
Alcuni, per sfuggire alla caccia di tedeschi e fascisti, si nascosero e altri tentarono di passare clandestinamente in Svizzera o di passare il fronte di Cassino. Ma circa il 40% degli ebrei italiani fu catturato e deportato.

Pochissimi si salvarono: dei 1023 ebrei romani deportati ad Auschwitz ne tornarono solo 16. Dei circa 600 ebrei stranieri confinati in provincia di Vicenza, molti furono nascosti da amici italiani, alcuni si unirono alla Resistenza, altri riuscirono a passare in Svizzera aiutati da partigiani italiani come Rinaldo e Mary Arnaldi, Torquato e Franco Fraccon, Gino Soldà, don Michele Carlotto. Alcuni furono arrestati nel tentativo e deportati prima a Fossoli e poi in Germania. Un numero imprecisato provenienti del campo di raccolta di Tonezza (nella foto qui a fianco) del Cimone fu deportato con il convoglio da Verona del 31/01/1944 diretto ad Auschwitz. Nessuno tornò.
Testo di Bruno Cazzola
Fonti: “Le poche cose” di Paolo Tagini; articoli di GdV del 26/1/2010. Archivio Anpi.